lunedì 9 febbraio 2015

Vita sacra, morte degna.



La sacralità di una vita degna di essere vissuta.

Una riflessione sul testamento biologico, per non dimenticare quello che il Parlamento sembra aver abbandonato.

 

Sei anni fa, in mezzo a tante, troppe, voci politiche e non solo, moriva Eluana Englaro.


Sei anni fa, dopo le morti soffertissime di tanti tra cui Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby, divampava il dibattito sul fine vita. 


Oggi, nonostante tutto quello che è stato, il diritto all’autodeterminazione terapeutica nel nostro paese viene ancora messo in discussione.


Di testamento biologico, in Italia, tanto si è parlato negli ultimi anni soprattutto in coincidenza con (e a partire da) alcuni casi che hanno occupato le pagine del dibattito giuridico, politico e pubblico. 

Come spesso accade però, problematiche che emergono in certi momenti con incredibile forza e spinta finiscono per essere via via, se non dimenticate, per lo meno accantonate in virtù di nuovi, e presumibilmente più esaltanti, dibattiti.

Questo è quello che è successo al Disegno di legge in materia di Dichiarazioni anticipate di trattamento, ancora in attesa, dal 13 luglio 2011, di completare l’esame parlamentare.

Quando si parla di testamento biologico o di dichiarazioni anticipate di trattamento ci si riferisce all’atto, scritto, in cui dovrebbe essere possibile indicare quali cure mediche e trattamenti sanitari vogliamo che ci siano applicati nel caso in cui la situazione concreta non permetta ai medici di chiedercelo direttamente.

Ciascuno di noi ha il fondamentale diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, ossia il diritto di assumere liberamente le decisioni che riguardano la propria salute. Questo diritto deriva dall’art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute e afferma che nessuno può essere obbligato a sottoporsi a un trattamento sanitario, a meno che non sia una legge a prevederlo (come avviene, ad esempio, con le vaccinazioni obbligatorie).

L’attuazione pratica di questo principio avviene per mezzo dello strumento del consenso informato. La volontarietà dei trattamenti sanitari stabilita dalla Costituzione e il consenso informato, che ne è attuazione pratica, sono concetti che si presentano come due facce di una stessa medaglia. I due concetti creano un delicato equilibrio che permette all’individuo di esprimere le proprie scelte nel campo dell’autodeterminazione terapeutica e gli permette di tracciare autonomamente i confini del rispetto della propria dignità e della propria persona. 

Ma non sempre il paziente è in grado di fornire questo consenso, perché potrebbe trovarsi in un momentaneo stato di incapacità di intendere e volere.

Ed è in casi come questi che un testamento biologico potrebbe fare la differenza. 

I progressi tecnologici applicati alla scienza medica, l’accrescimento delle prospettive di vita e le nuove possibilità diagnostiche e terapeutiche hanno reso necessaria una riflessione su queste tematiche, dal momento che oggi è possibile tenere in vita una persona in modo parzialmente o totalmente artificiale.

Storie come quelle di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby hanno portato l’attenzione di tutti sulla possibilità di dissentire da trattamenti terapeutici cosiddetti salvifici (o salvavita), ossia quelle terapie mediche dalla cui attivazione o prosecuzione dipende la vita del paziente.

Il nostro diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica arriva fino a permetterci di esprimere il desiderio di non essere sottoposti a una tale terapia, anche se dalla realizzazione della nostra richiesta deriverà la morte?


Nei casi in cui la libera scelta dell’individuo di non consentire a un determinato trattamento terapeutico comporti, come certa e inevitabile conseguenza, la sua morte, il problema che viene sollevato è quello della disponibilità o indisponibilità del diritto alla vita. 

Abbiamo, cioè, la libertà di decidere liberamente e totalmente cosa fare della nostra vita e della nostra morte?


Se nessuno può essere obbligato a sottoporsi a un trattamento sanitario e tutti abbiamo il diritto costituzionale di consentire o dissentire alle cure mediche dovrebbe essere possibile anche rifiutare, in maniera consapevole, un trattamento sanitario salvavita.

Una scelta di questo tipo dovrebbe essere possibile in un’ottica di tutela di un diritto di ciascuno di scegliere che tipo di vita desidera vivere: il diritto dell’individuo di valutare, entro dei confini che la legge dovrebbe stabilire, quale qualità di vita ritiene accettabile. Ciò significherebbe dare a ognuno la libertà di scegliere per sé, senza attribuire però a nessuno il diritto di decidere per gli altri.

Il dibattito si accende quando sulla bilancia, accanto alla libertà di scelta, si mette il concetto di sacralità della vita. Il problema è noto, ed è lo stesso che si incontra in molti altri temi (per esempio i matrimoni omosessuali). Il nostro ordinamento è di fatto fortissimamente influenzato dai valori della religione cattolica, e questo di per sé non deve essere per forza etichettato come il peggiore dei mali. Lo diventa, però, quando i valori diventano imposizioni, verità assolute e valide per tutti, cattolici e no.  

Non lo si dirà mai abbastanza, ma il nostro è uno Stato laico, dove laicità (per usare le parole della Corte costituzionale) implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.
Questo significa che in realtà, sulla base del principio di laicità dello Stato, non sarebbe possibile effettuare ragionamenti interpretativi, o addirittura discussioni in sede legiferante, che partano dal concetto di sacralità della vita umana derivante dalla religione cattolica. Lo Stato dovrebbe ragionare da una posizione di equidistanza da tutte le confessioni religiose o le morali. Lo Stato non può “nascondersi” dietro a concetti religiosi che rispecchiano la morale solo di una parte, magari anche ampia, della popolazione, per disciplinare situazioni che si rifletteranno su tutti i cittadini.

La posizione di equidistanza, e non indifferenza, dello Stato non solo nei confronti delle confessioni religiose, ma anche più in generale delle diverse posizioni culturali, implica la necessità che l’ordinamento garantisca le stesse possibilità di esplicare la propria personalità a ciascun soggetto in espressione della sua religione o cultura.

La sacralità della vita non deve essere interpretata in una visione religiosa, ma piuttosto in una plurale: per qualcuno la vita è sacra a prescindere da tutto, per altri la sacralità della vita risiede in altre cose come la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico (…) la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude (parole di Piergiorgio Welby nella lettera aperte che il 24febbraio 2009 inviò al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ).

Secondo la Corte costituzionale, la Costituzione garantisce il principio di laicità dello Stato caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse, e quest’uguaglianza può essere garantita solo se le discussioni legislative prendono il via da concetti che non siano espressione di una data cultura, religione, o credo.

Uno Stato laico dovrebbe assicurare gli stessi diritti e le stesse possibilità di realizzazione a tutti, qualunque sia il loro credo religioso. Non ci stancheremo mai di dirlo: emanare leggi sulle coppie di fatto, sui matrimoni omosessuali o sul testamento biologico non significa sminuire il valore della famiglia o quello della sacralità della vita per coloro che credono in questi valori.

Nella legge devono poter trovare spazio tutti i valori, compatibili con i principi costituzionali, emergenti dalla società.


Lasciando da parte le convinzioni religiose e morali in generale, per quanto questo possa essere, in casi come questo, difficile, ci sembra che l’ordinamento debba farsi carico di tutelare la vita dei singoli in una visione pluralista, e non limitarsi a uno specifico concetto di vita.

Questo significa, a nostro avviso, che l’ordinamento deve mettersi nella posizione di disciplinare il maggior numero di richieste - s’intende, costituzionalmente legittime - dei cittadini circa l’esplicazione e l’esercizio del diritto alla vita. Sempre a nostro avviso, questo non può che portare a sostenere un concetto di qualità della vita piuttosto che uno di sacralità della vita.

Parlando, infatti, in questi termini non s’imporrebbe nessuna posizione, ma si deciderebbe di disciplinare il maggior numero di possibilità di esercizio del diritto alla vita, così da tutelare le diverse concezioni di qualità della vita.

Si passerebbe così dalla garanzia del diritto alla vita, a una più specifica tutela e difesa del diritto alla qualità della vita
Questo diritto non escluderebbe nessun concetto di sacralità della vita, ma dovrebbe essere interpretato come una categoria generale, dove ciascuno può essere libero di realizzare la propria qualità della vita

Solo così sarà tutelato – sempre, ovviamente, entro i limiti stabiliti dalla legge - sia chi intende la vita come sacra e intangibile secondo il proprio credo o morale, sia chi ritiene che la vita debba essere, per il singolo, un bene disponibile. E che a certe condizioni può diventare meno desiderabile di una dignitosa morte.

mercoledì 14 gennaio 2015

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SI DIMETTE: E ORA?




Piccolo vademecum sull’elezione della più alta carica dello stato italiano.

Oggi, 14 gennaio 2015, Giorgio Napolitano si dimette dal suo secondo mandato come Presidente della Repubblica italiana. A riconoscergli questa facoltà è direttamente la Costituzione, all’art. 86.

 SIAMO SENZA PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA?
Solo formalmente perché finché non sarà eletto il nuovo Presidente della Repubblica le sue funzioni sono esercitate dal Presidente del Senato, ossia da Pietro Grasso.

QUANDO SARANNO LE ELEZIONI DEL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA?
Secondo quanto dice la Costituzione (art. 86) entro 15 giorni da oggi. La prima votazione sarà il 29 gennaio 2015.

CHI SONO I CANDIDATI?
Non ci sono candidati ufficiali, cioè non vengono presentate liste o candidature come per le elezioni del Parlamento. Come dice la Costituzione (art. 84) può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino italiano che abbia compiuto i 50 anni di età e goda dei diritti civili e politici. Chi ha visto il film Benvenuto Presidente! di Riccardo Milani con Claudio Bisio sa di cosa stiamo parlando!

SE NON CI SONO CANDIDATI UFFICIALI, COME È POSSIBILE GIUNGERE A UN NOME?
I partiti e i vari gruppi politici devono cercare di mettersi d’accordo al loro interno e tra di loro per trovare un nome condiviso, che rappresenti il maggior numero di persone. Il senso dell’elezione del Presidente della Repubblica è proprio questo: condividere la fiducia verso il soggetto che per i successivi 7 anni sarà il garante dell’unità nazionale e della Costituzione.

CHI PUÒ VOTARE?
Ad eleggere il Presidente della Repubblica italiana non sono i cittadini ma i loro rappresentanti in Parlamento. In occasione di queste votazioni i Deputati e i Senatori si riuniscono tutti insieme nel Parlamento in seduta comune. Oltre ai 630 deputati, ai 315 senatori e ai senatori a vita (il cui numero è variabile) la Costituzione chiama a votare anche tre delegati per ogni Regione, ad eccezione della Valle d’Aosta che ha un solo delegato.

COME AVVIENE L’ELEZIONE?
Parlamentari, senatori a vita e delegati regionali, riuniti a Palazzo Montecitorio nella sede della Camera dei Deputati, danno il loro voto al candidato che hanno scelto. Il voto è segreto, per questo possono esserci i cd. franchi tiratori cioè persone che hanno dichiarato al loro partito di essere d’accordo per votare una certa persona che poi, nel segreto dell’urna, decidono di votare diversamente creando squilibrio nelle previsioni dei partiti.

CHI VIENE ELETTO?
Nelle prime 3 votazioni può venire eletto solo chi ottenga la maggioranza dei 2/3 degli aventi diritto al voto. Se nelle prime 3 votazioni non c’è questa maggioranza, dalla 4° votazione in poi sarà Presidente della Repubblica chi ottenga la maggioranza assoluta.

PERCHÉ QUESTA DIFFERENZA DI MAGGIORANZA TRA LE PRIME VOTAZIONI E LE SUCCESSIVE?
I Costituenti volevano che il Presidente della Repubblica fosse un soggetto che riscuoteva un ampio consenso, per questo hanno preteso che si cercasse di raggiungere una maggioranza dei 2/3. Nonostante questa volontà i Costituenti sapevano anche che la Repubblica non poteva rischiare di rimanere troppo a lungo senza un Presidente; per questo hanno stabilito che dalla 4a votazione in poi fosse sufficiente la maggioranza assoluta (50%+1 degli aventi diritto).

COSA SUCCEDE ORA A GIORGIO NAPOLITANO?
Giorgio Napolitano era stato nominato senatore a vita nel 2005 da Carlo Azeglio Ciampi (Presidente della Repubblica prima di lui) e quindi tornerà a ricoprire questo ruolo. Secondo quanto stabilito dall’ art. 59 della Costituzione Napolitano sarebbe diventato comunque senatore a vita una volta terminato il suo mandato come Presidente della Repubblica. Questo perché ogni Presidente della Repubblica diventa di diritto senatore a vita.

martedì 13 gennaio 2015

FIGLIO DI DUE MAMME CHE PER L'ITALIA NON SARANNO MAI UNA FAMIGLIA

Torino e le due mamme (su QCode Magazine, 13 gennaio 2015).


Ieri la Corte costituzionale chiudeva le porte ai matrimoni omosessuali in Italia. Oggi la sentenza della Corte d’Appello di Torino ordina la trascrizione in Italia dell’atto di nascita del figlio nato in Spagna da due donne (Corte App. Torino, sez. fam., decreto 29 ottobre 2014). Domani chissà. Dopotutto, domani è un altro giorno.
Su questi due fatti di cronaca e attualità giuridico-politica, simili per tanti aspetti, risolti in modi completamente diversi, conviene soffermarsi per ragionare sull’opportunità che le innovazioni giuridiche passino attraverso le aule del Parlamento piuttosto che attraverso quelle dei Tribunali.

Parlamentari? Non pervenuti
Nei recenti casi sul riconoscimento in Italia dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero i giudici non sono stati “accondiscendenti” e, ancorandosi ai concetti tradizionali e legislativi di famiglia, hanno negato la trascrizione di questi atti stranieri per inesistenza del corrispettivo giuridico nel nostro ordinamento. In sostanza, i giudici (e tra questi, in primis, la Corte costituzionale) hanno affermato che – stante l’inesistenza nel nostro ordinamento del matrimonio tra persone dello stesso sesso e, anzi, la precisa affermazione legislativa che i coniugi sono una marito uomo e una moglie donna – i matrimoni omosessuali contratti all’estero non possono essere trascritti ed avere riconoscimento giuridico in Italia.
Nel caso, che in questi giorni occupa le pagine della stampa, della sentenza della Corte d’Appello di Torino, invece, i giudici (sempre loro, perché i Parlamentari su questi temi sono “n.p. – non pervenuti”) affermano che il concetto di ordine pubblico e di interesse del minore permette di riconoscere giuridicamente che il bambino in questione ha due mamme e nessun papà.
Quello su cui credo sia necessario riflettere è la discrezionalità di queste decisioni.
Comincio da un approccio personale, tentando di tenere distinto ciò che invece direbbe un “giurista”. Chi ritiene (come la sottoscritta) che l’Italia non perderebbe nulla se diventasse un Paese in cui a contraddistinguere il concetto di famiglia sono solamente i sentimenti che legano le persone, potrebbe sentirsi felice della sentenza di Torino.
D’altro canto, però (sempre come persona e non come giurista) le decisioni dei giudici sul matrimonio omosessuale potrebbero lasciare l’amaro in bocca proprio se si è convinti che la famiglia non debba essere né legittima né illegittima, né di fatto né di diritto, ma solamente un qualsiasi insieme di persone che si vogliono bene.

E la prossima volta?
L’arbitrarietà di queste decisioni sta nel fatto che nessuno è in grado di dirci cosa succederà la prossima volta in cui i giudici avranno a che fare con un caso che aleggia in un vuoto legislativo: ci piacerà o no la loro decisione? Senza annoiare nessuno con tecnicismi, è comunque necessario ricordare che, in Italia, la Costituzione dice che «I giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art.101) e perciò non sono obbligati a rispettare e a conformarsi a nessuna opinione che non sia quella del Legislatore o della Corte costituzionale. Ma se la legge non c’è?
Questa preoccupazione vale per moltissimi temi, altrettanto importanti e delicati per la vita delle persone, sui quali il Parlamento e la politica non sono ancora riusciti a dare risposte concrete, anche se la realtà sociale contemporanea le chiede da tempo (si pensi solo alle questioni inerenti il fine vita, tanto discusse e poi abbandonate, come se il problema non esistesse più).
Se è vero che, come tuonano le scritte delle aule dei tribunali italiani, “La legge è uguale per tutti”, perché Luca e Carlo non possono essere considerati marito e marito, mentre Anna e Laura sono legalmente le due mamme del figlio che è nato dal loro amore?
Incertezza non è giustizia

Insomma, parlando come giurista, l’incertezza data dall’arbitrarietà di giudici che si muovono senza appigli legislativi non può essere soddisfacente. E non dovrebbe soddisfare nessuno, nemmeno le due mamme che hanno ottenuto che il loro figlio, nato con la fecondazione eterologa (altro terreno battuto più dai giudici che dal legislatore), sia riconosciuto in Italia come figlio di entrambe, perché questa pronuncia non dà a loro e a nessuno di noi alcuna garanzia.
Non c’è uguaglianza di nessun genere in una decisione che non è ancorata a nulla se non al buon senso del giudice.
È il diritto, quello scritto, quello certo, ma non per questo immutabile, che deve rispondere alle esigenze della società e di coloro che la compongono, sulla base di quei principi giuridici (e non dei valori ideologici) che le Costituzioni e le Carte internazionali dei diritti riconoscono.

sabato 10 gennaio 2015

COMPAGNI O CONIUGI?





Scegliere come vivere liberamente in coppia: un diritto che gli omosessuali ancora non hanno



Realtà sociale, diritto e religione. Questi i tre ambiti nei quali si anima il dibattito senza fine sul nucleo essenziale di ogni società. La definizione dei legami affettivi che uniscono le persone, come in un film di fantascienza, viaggia nel tempo, senza sosta, dal’1 d.C. passando per il 1948, prima di transitare per il 2014. Il problema è che sembra che i circuiti temporali della macchina del tempo di questo viaggio siano guasti e la famiglia non riesca a “tornare al futuro”.


La famiglia della nostra Costituzione è una società naturale fondata sul matrimonio (art. 29). La definizione che i Costituenti hanno voluto racchiudere nella più importante delle leggi identifica solo uno dei diversi tipi di famiglia che, invece, sono presenti nella società odierna. La Costituzione riconosce espressamente diritti e tutele al legame tra due persone che contraggono matrimonio (anche religioso) con effetti civili. Il matrimonio, quindi, è la condizione per il riconoscimento della famiglia a livello costituzionale e legislativo.


Dall’articolo 29 restano quindi escluse le famiglie di fatto, ossia i legami tra due persone che non sono sposate e, si dice, convivono more uxorio. Il riconoscimento costituzionale di questo tipo di unione è contenuto nell’articolo 2 della Costituzione con il quale la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. La famiglia, in tutte le sue espressioni e manifestazioni, altro non è se non la prima e la più importante tra le formazioni sociali di cui parla la norma costituzionale.


Un riconoscimento costituzionale delle coppie di fatto, quindi, c’è. Solo che quando la Costituzione parla espressamente di famiglia parla di quella fondata sul matrimonio. Per questo i diritti delle coppie di fatto sono da sempre oggetto di discussione, incertezza e preoccupazione.

Coloro che scelgono di formare una famiglia senza il legame matrimoniale solitamente lo fanno – si presume - per un rifiuto dei vincoli e delle responsabilità derivanti dal matrimonio. Nonostante questa scelta, libera e (teoricamente) consapevole, nel pacchetto “no obligations” c’è, in fondo e in piccolo tanto che molti forse non se ne accorgono, anche la clausola “no rights”.


Questo significa, molto semplicemente, che i conviventi more uxorio non essendo coniugi non si vedono riconosciuti i diritti che la legge ricollega al matrimonio. Sarebbe illogico, e contrario al più basilare dei principi di causa-effetto, applicare a qualcuno le conseguenze di qualcosa che non ha fatto.


Pertanto, solo per fare qualche esempio, le coppie di fatto si ritrovano senza diritti successori nei confronti del partner (fatto salvo quanto può essere disposto tramite testamento), senza diritti patrimoniali, senza diritti sull’abitazione, prive quasi totalmente del diritto a partecipare alle decisioni riguardanti la salute del partner, e così via.


A questo punto viene da chiedersi dove si collochino le coppie omosessuali in questo, rassicurante (!), quadro. In effetti, ragionandoci un attimo, da nessuna parte.


Nel nostro paese è noto che le persone dello stesso sesso non possono sposarsi civilmente. Questo fa sì che, automaticamente, le coppie omosessuali diventino famiglie di fatto. Solo che una piccola, fondamentale differenza rispetto alle coppie di fatto tra partner di sesso diverso c’è: le coppie omosessuali non hanno, in Italia, possibilità di scegliere.


Chi trova la propria anima gemella in una persona del suo stesso sesso è costretto dall’ordinamento italiano a vivere un legame privo di tutele. Infatti, mentre due persone di sesso diverso scelgono e decidono liberamente di non contrarre matrimonio, assumendosi le responsabilità di questa scelta, le coppie omosessuali non possono decidere che forma dare al loro legame, poiché per l’ordinamento il loro legame non esiste.


Giuridicamente, e non solo, l’ampiezza della libertà di ciascun individuo passa attraverso il numero di opzioni tra le quali può scegliere. In questi termini, le coppie omosessuali sono “prigioniere” della zona grigia in cui la loro unione si ritrova.


E allora quali i rimedi? Meglio puntare al fattibile piuttosto che all’irraggiungibile. In un momento in cui non si riesce a mettere in atto nemmeno l’abolizione dalla Costituzione delle province, è impensabile che la società italiana accetti l’idea di modificare la definizione costituzionale di famiglia, per esempio togliendo il “fondata sul matrimonio” dall’articolo 29. A livello della religione cattolica le cose non vanno meglio: il tentativo del Papa di allargare le vedute sul tema dei divorziati e degli omosessuali si è scontrato con la rigidità dell’ordinamento canonico. Ma non siamo qui a disquisire se l’amore di qualsiasi Dio passi attraverso la scelta di ognuno di amare chi vuole.


In una prospettiva di fattibilità, quindi, le coppie omosessuali potrebbero trovare tutele solo attraverso una parificazione della loro libertà di scelta a quella delle altre coppie di fatto, quelle eterosessuali. 
Questa equiparazione, sotto il profilo della libertà di scelta, può passare attraverso due strumenti che sarebbe opportuno uscissero dalle aule del Parlamento.

Le strade percorribili sono: quella di una legge che regoli il matrimonio civile tra le persone dello stesso sesso (e che, in quanto legge dello Stato e incidente solo sul matrimonio civile, non invaderebbe in alcun modo la sfera degli ordinamenti religiosi); oppure quella di un provvedimento normativo che disciplini diritti e doveri delle coppie di fatto registrate, regolarizzando e uniformando le positive esperienze comunali dei registri delle unioni civili.


Il dibattito sul tema delle coppie omosessuali e delle nuove tipologie di famiglia è però talmente attaccato a concezioni ideologiche che nessuna delle opzioni che abbiamo appena visto ha potuto, in Italia, spingersi più in là di un qualche disegno di legge dimenticato o accuratamente nascosto in qualche cassetto.


Così, le coppie omosessuali non hanno potuto far altro che andare a cercare, non tanto tutela giuridica, quanto riconoscimento e accettazione all’estero nei molti Paesi, anche in Europa, che permettono il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Solo che al loro rientro in Italia i novelli sposi o le novelle spose si ritrovano nella stessa situazione di partenza e il loro vincolo matrimoniale, che all’estero ha pieno valore giuridico, in patria non vale nulla.


La strada da percorrere per ottenere in Italia il riconoscimento di un matrimonio contratto all’estero è quella della richiesta di trascrizione dell’atto matrimoniale nei registi dello stato civile del comune di residenza. La richiesta di trascrivere in Italia un matrimonio contratto all’estero non incontra, di per sé, limiti nella legge italiana.


Negli ultimi anni, quindi, molte coppie omosessuali hanno intrapreso questa strada che però non ha portato ai risultati sperati. Infatti, come emerso anche recentissimamente dai casi di Milano, Bologna, Udine e non solo, anche se gli ufficiali di stato civile accettano di procedere alla trascrizione c’è comunque qualcuno che si mette in mezzo, come le Prefetture che cancellano i provvedimenti di trascrizione. E qui comincia un’altra storia, potenzialmente, infinita perché i cittadini si rivolgono ai giudici affinché le cancellazioni disposte dalle Prefetture vengano dichiarate illegittime.


Come andrà a finire? Difficile intravedere un lieto fine. Questo perché l’intervento dei tribunali non può che portare fino alla Corte costituzionale che verrebbe chiamata (ancora) in causa per interpretare la Carta e dichiarare incostituzionali le norme del codice civile che espressamente prevedono che il matrimonio sia tra persone di sesso diverso.


Eh, già, perché i Comuni che non trascrivono o le Prefetture che cancellano non è che abbiano tanto margine d’azione, quando la legge italiana espressamente prevede che il vincolo matrimoniale sia solo quello tra partner di sesso diverso. Il punto quindi è questo: o la legge cambia, o non si può pretendere che vengano adottati a livello comunale provvedimenti illegali.


Spiace dirlo, e non poco, ma la Corte costituzionale si è già pronunciata su questo tema, nel 2010 (sentenza n. 138). In quel caso una coppia omosessuale aveva ricevuto il rifiuto dall’ufficiale di stato civile alla trascrizione del matrimonio estero e per questo aveva fatto ricorso al Tribunale. Il Giudice ha ritenuto di non potersi pronunciare sul ricorso, e ha sollevato una questione di costituzionalità. In sostanza il giudice ha chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare illegittimi gli articoli del codice civile che prevedono che il matrimonio sia solo quello tra persone di sesso diverso. Il problema sollevato non era, quindi, l’illegittimità della decisione di non trascrivere, ma la supposta incostituzionalità delle leggi su cui questa decisione si era basata.


La Corte, pur riconoscendo che nella nozione di formazione sociale tutelata dalla Costituzione è “da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri” esclude, tuttavia “che l’aspirazione a tale riconoscimento possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”.  


Quindi, per ora, niente matrimonio civile per le coppie omosessuali, anche se (perlomeno) la Corte ha riconosciuto il diritto fondamentale di queste coppie alla tutela giuridica con i connessi diritti e doveri. Il punto è che solo il Parlamento, che rappresenta i cittadini e, quindi ne esercita la sovranità, è legittimato a riconoscere questi diritti e doveri, non può essere la Corte, né tanto meno gli Ufficiali di stato civile, a farlo.


Se si applica la normativa vigente la trascrizione dei matrimoni omosessuali risulta contraria a norme di legge, quelle del codice civile che espressamente prevedono la diversità di sesso tra i coniugi.  Se si procedesse con l’iter di impugnazione delle cancellazioni da parte della Prefettura e si giungesse nuovamente alla Corte costituzionale, chiedendole di dichiarare illegittime le disposizioni del codice civile, difficilmente a soli 4 anni di distanza la Corte si pronuncerebbe diversamente da quello che abbiamo visto sopra.

Anche se il Parlamento con una legge modificasse le norme del codice civile eliminando il riferimento alla diversità di genere dei coniugi, a meno di un cambio di orientamento della Corte costituzionale, sarebbe molto probabile che alla prima occasione la Consulta dichiari incostituzionale la modifica parlamentare. Sembra quindi difficile che il Parlamento, già oberato di lavoro, decida di muoversi in senso contrario alla Corte, lavorando, sostanzialmente, per niente. 


L’unica soluzione quindi, è una diversa presa di posizione del Parlamento, una legge che rispettando il principio democratico e della sovranità popolare, riconosca le unioni omosessuali, anche se attraverso una forma di vincolo giuridico diverso dal matrimonio.


Anche se la Costituzione nulla dice sul sesso dei coniugi non possiamo far finta di non sapere che i Costituenti non stavano certamente pensando di legittimare i matrimoni omosessuali quando nel 1948 hanno scritto l’art. 29. Detto questo nulla vieterebbe al Legislatore di disciplinarli ugualmente e di interpretare in maniera evolutiva la Costituzione. Solo che bisogna volerlo. E questa, a proposito di libertà di scelta, è una cosa che solo il Parlamento ha diritto di scegliere.